mercoledì 26 ottobre 2011

NONNA VIRGINIA


Nonna Virginia, classe 1904, avrebbe 109 anni se fosse ancora viva anche se viva è nel mio pensiero, nei miei ricordi, nel mio immaginario.
Fu lei, piccola grande donna, nella sua squisita ignoranza, bambina cresciuta senza mamma  tra errori e orrori del suo passato, a spiegarmi, all’età di 13 anni, io spaventata per quel sangue che mi colava dalle gambe che non dovevo preoccuparmi, perché era il primo segno della mia apertura alla vita  del quale la natura mi aveva fatto dono. 
Fu sempre lei che raccolse le mie prime confessioni d’amore, le mie pene, soddisfatta di quella complicità fatta di sguardi furtivi, parole biascicate in qualche angolo della casa e alla quale mai contravvenne per non deludere quel patto  suggellato senza testimoni.  Ma tutto ciò aveva un prezzo. Nei pomeriggi assolati, nella mia stanza, io e le mie sorelle dovevamo giocare con lei a carte, a briscola, scopa, chissà cosa vedeva in quelle carte, quale elemento di riscatto in una partita vinta. 
Nonno Carlo, con la sua gamba di legno, era forse la risposta inconscia al suo bisogno di protagonismo che la vedeva spesso scontrarsi sulla quotidianità con mia madre, assillata da mille problemi ma conscia di quel potere carismatico che mia nonna esercitava su di noi con il suo carattere spiritoso e allegro, fatto di battute di spirito, di buonumore, racconti e leggende di streghe e folletti, credenze popolari di origine celtica, alle quali si ispirava.
Spesso per farci stare buoni ci terrorizzava con le storie di fantasmi che si aggiravano per Timau, il paesino che seppur lontana viveva stabilmente nel suo cuore ma la paura non durava che qualche istante sostituita dalla curiosità morbosa di sapere come finivano quelle storie, alle quali riservava un finale sempre diverso tanto da  tenerci continuamente sulle spine in  attesa di chissà quale accadimento.
Il Silverio, le streghe, il serpente dell'acqua diventano presenze vive, oscure,  capaci di creare emozioni forti fino a turbare i nostri sogni di bambini.
C'erano anche immagini lievi legate alla semplicità della sua anima contadina della quale andava fiera  e la immaginavamo, gerla sulle spalle, dirigersi verso la stalla  dove  Bruna  e Nerina, la mucca  e la capretta, in un processo di personificazione avevano acquisito tratti umani.
Le accudiva e gli parlava nel suo splendido idioma timavese e al tepore della stalla più di una volta la trovarono addormentata, coi ferri della calza in mano.
Leggerezza è l’aggettivo che meglio si addice alla sua personalità, quella leggerezza dell'anima che neppure le avversità e i tanti momenti dolorosi riuscirono a scalfire







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