domenica 18 dicembre 2011

La Quercia


Ah la quercia, alta, frondosa, con le sue grandi chiome ad abbracciare tutti. E noi eravamo pronti al suo richiamo quando bambini, dopo una giornata di scuola, correvamo verso di lei, pronti a sfinirci in un alternarsi di giochi che immancabilmente partivano sempre da lì: il ritrovo. Giorni spensierati dove la fantasia giocava un ruolo determinante nelle scelte dei giochi da fare, bambini e bambine uniti ma divisi nei ruoli, nelle decisioni perché quelle spettavano sempre e unicamente ai maschi. Ricordo che sapevo tutto di come si costruiva un arco, una freccia, una fionda perché mio fratello e i suoi amici, in autunno, raccoglievano i rami di corniolo o del nocciolo, più flessibili di altri, li facevano seccare durante l’inverno perché diventassero più facili da lavorare e, al primo tepore, quando la primavera, dopo un interminabile inverno, da noi più lungo a causa della neve abbondante e delle temperature rigide, faceva finalmente capolino, cominciavano i nostri  pomeriggi al sole, vestiti alla bell’ e meglio, non avevamo mai freddo ma i moccoli dei nostri nasi arrossati tradivano l’aria ancor gelida  che non sentivamo. Con mani esperte, mentre noi bambine guardavamo, loro i maschi con gli attrezzi del mestiere piegavano, sbucciavano, legavano e fino a che la corda non era perfettamente tirata e l’arco giustamente incurvato non si accontentavano. Lo stesso con la fionda che veniva costruita con cura e attenzione, gli elastici venivano recuperati da   vecchie camere d’aria ormai inutilizzate di motociclette e il lavoro più delicato era costituito dall’assemblaggio dei vari pezzi. Con queste rudimentali armi avremmo dovuto dare la caccia a piccoli animaletti, lucertole, uccellini ma finiva sempre che gli unici bersagli erano costituiti da bottiglie e barattoli perché nessuno aveva a cuore di fare veramente quello che era nelle intenzioni primitive. Un giorno, Pelca,  diminutivo di Pel di carota per il colore dei capelli e il viso invaso dalle lentiggini, mentre prendeva le misure per valutare quanto in alto arrivava  il sasso lanciato dalla sua fionda, vide cadere ai suoi piedi una povera rondinella. Allo stupore iniziale, accortosi di essere stato l’artefice della morte dell’uccellino, seguì il dolore suo e nostro di fronte all’inutilità di quella morte che nessuno voleva. Faceva quasi buio ma non riuscivamo a  staccarci da quel posto. Avvolgemmo la rondinella in un fazzoletto recuperato dalla tasca di uno di noi e la adagiammo delicatamente, come volessimo farci perdonare,  in un buco scavato con le nostre stesse mani, aiutati da legnetti raccolti là attorno. Ci facevano male le mani per la durezza della terra ma faceva ancor più male il cuore per quanto era successo. Ritornammo a casa mogi,mogi, l’incanto della giornata ormai rotto dall’accaduto ma già strada facendo nuovi pensieri, nuovi progetti,  un guizzo nell’occhio, pronti ad affrontare  un nuovo giorno con lo spirito e l’incoscienza dei nostri tredici anni.

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