Ah la quercia, alta, frondosa, con le sue grandi chiome ad
abbracciare tutti. E noi eravamo pronti al suo richiamo quando bambini, dopo
una giornata di scuola, correvamo verso di lei, pronti a sfinirci in un
alternarsi di giochi che immancabilmente partivano sempre da lì: il ritrovo.
Giorni spensierati dove la fantasia giocava un ruolo determinante nelle scelte
dei giochi da fare, bambini e bambine uniti ma divisi nei ruoli, nelle
decisioni perché quelle spettavano sempre e unicamente ai maschi. Ricordo che
sapevo tutto di come si costruiva un arco, una freccia, una fionda perché mio
fratello e i suoi amici, in autunno, raccoglievano i rami di corniolo o del
nocciolo, più flessibili di altri, li facevano seccare durante l’inverno perché
diventassero più facili da lavorare e, al primo tepore, quando la primavera,
dopo un interminabile inverno, da noi più lungo a causa della neve abbondante e
delle temperature rigide, faceva finalmente capolino, cominciavano i nostri
pomeriggi al sole, vestiti alla bell’ e meglio, non avevamo mai freddo ma i
moccoli dei nostri nasi arrossati tradivano l’aria ancor gelida che non
sentivamo. Con mani esperte, mentre noi bambine guardavamo, loro i maschi con
gli attrezzi del mestiere piegavano, sbucciavano, legavano e fino a che la
corda non era perfettamente tirata e l’arco giustamente incurvato non si
accontentavano. Lo stesso con la fionda che veniva costruita con cura e
attenzione, gli elastici venivano recuperati da vecchie camere
d’aria ormai inutilizzate di motociclette e il lavoro più delicato era
costituito dall’assemblaggio dei vari pezzi. Con queste rudimentali armi
avremmo dovuto dare la caccia a piccoli animaletti, lucertole, uccellini ma
finiva sempre che gli unici bersagli erano costituiti da bottiglie e barattoli
perché nessuno aveva a cuore di fare veramente quello che era nelle intenzioni
primitive. Un giorno, Pelca, diminutivo di Pel di carota per il colore
dei capelli e il viso invaso dalle lentiggini, mentre prendeva le misure per
valutare quanto in alto arrivava il sasso lanciato dalla sua fionda, vide
cadere ai suoi piedi una povera rondinella. Allo stupore iniziale, accortosi di
essere stato l’artefice della morte dell’uccellino, seguì il dolore suo e
nostro di fronte all’inutilità di quella morte che nessuno voleva. Faceva quasi
buio ma non riuscivamo a staccarci da quel posto. Avvolgemmo la
rondinella in un fazzoletto recuperato dalla tasca di uno di noi e la adagiammo
delicatamente, come volessimo farci perdonare, in un buco scavato con le
nostre stesse mani, aiutati da legnetti raccolti là attorno. Ci facevano male
le mani per la durezza della terra ma faceva ancor più male il cuore per quanto
era successo. Ritornammo a casa mogi,mogi, l’incanto della giornata ormai rotto
dall’accaduto ma già strada facendo nuovi pensieri, nuovi progetti, un
guizzo nell’occhio, pronti ad affrontare un nuovo giorno con lo spirito e
l’incoscienza dei nostri tredici anni.
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