mercoledì 26 ottobre 2011

Gabriella



Le parole non dette sono il nostro pianto soffocato

Profumo di prato e  giallo di ranuncoli mi ricordi, ti vedo ancora inerpicarti su per la salita di quella striscia di bosco, vicino a casa nostra, dove ogni volta ci perdavamo perché inebriati dai mille profumi  e segreti nascosti. E poi,  le  rane, la vasca dei girini, i rospi dopo il temporale, l’arcobaleno, tutto girava attorno alla natura, i nostri pomeriggi ci vedevano immersi. Ricordo il tuo pianto, uno di quelli che mi fece male, tu con la fronte accostata al muro là dove l’uomo nero, per dispetto e per disprezzo, aveva sbattuto i suoi mici, appena nati, facendoli passare dal buio al buio. E le nostre domeniche Gabriella, col vestito della festa, che era sempre il più bello di tutti,  perché la mamma ci teneva che facessimo bella figura, le nostra domeniche che iniziavano sempre con la solita  baruffa, ma che già al momento dell’andare in chiesa si era risolta tra chiacchiere e pensieri. E il pomeriggio puntuale il cinema, Cinema David per la precisione, dove andavamo non soltanto per vedere il film, per lo più  storico o in costume, ma per poter godere dell’intimità col nostro innamorato, poterci sfiorare e dare un casto bacio. E poi le rare serate passate al dancing (si chiamava così allora), sotto lo sguardo vigile di papà che difficilmente siamo riuscite a depistare.
E l’autostop? -Tu dura come il marmo, non volevi mai accettare l’invito di chi ci faceva salire, il più delle volte senza malizia, soltanto per farci un favore-.
Il tuo carattere capriccioso  e ribelle si scontrava con tutto ciò che sapeva di regole e imposizioni,  il tuo senso della giustizia era dilatato e mal si accordava con quello dei tempi  in cui, in prima liceo,  un cinque in latino da recuperare a settembre lo vivesti come un sopruso, chiudendo  definitivamente con quella scuola,  non sapendo allora che la vita ti avrebbe riservato  altri sogni e  appuntamenti da rimandare.
Io e te, unite ma lontane, troppo diverse per poterci capire, il mio mondo a te estraneo, la tua percezione delle cose e della vita non in sintonia con la mia. Eppure eravamo cresciute assieme, giocato, riso, pianto assieme,  fatto gli stessi passi, cresciute con gli stessi valori, visto le stesse cose ma erano gli occhi che erano diversi: i miei si rivolgevano all’obiettivo, al suo raggiungimento, sempre in corsa, infaticabile; i tuoi contemplavano l’infinito, erano in attesa, sospesi.
Quanti sogni, quante speranze deluse Gabriella per volere osare troppo, o troppo poco, comunque inconciliabili con le scelte o rinunce fatte. Anni e anni di duplice vita, quella del vivere quotidiano, fatta come tutti, di alti e bassi, gioie e dolori  e quella interiore, smisurata, ingombrante, alla spasmodica ricerca di te.
E poi il risveglio, il riscatto, una nuova  energia a rinvigorire il presente,  forse sentivi già che qualcosa ti sfuggiva. Non hai fatto in tempo a capirlo.

NONNA VIRGINIA


Nonna Virginia, classe 1904, avrebbe 109 anni se fosse ancora viva anche se viva è nel mio pensiero, nei miei ricordi, nel mio immaginario.
Fu lei, piccola grande donna, nella sua squisita ignoranza, bambina cresciuta senza mamma  tra errori e orrori del suo passato, a spiegarmi, all’età di 13 anni, io spaventata per quel sangue che mi colava dalle gambe che non dovevo preoccuparmi, perché era il primo segno della mia apertura alla vita  del quale la natura mi aveva fatto dono. 
Fu sempre lei che raccolse le mie prime confessioni d’amore, le mie pene, soddisfatta di quella complicità fatta di sguardi furtivi, parole biascicate in qualche angolo della casa e alla quale mai contravvenne per non deludere quel patto  suggellato senza testimoni.  Ma tutto ciò aveva un prezzo. Nei pomeriggi assolati, nella mia stanza, io e le mie sorelle dovevamo giocare con lei a carte, a briscola, scopa, chissà cosa vedeva in quelle carte, quale elemento di riscatto in una partita vinta. 
Nonno Carlo, con la sua gamba di legno, era forse la risposta inconscia al suo bisogno di protagonismo che la vedeva spesso scontrarsi sulla quotidianità con mia madre, assillata da mille problemi ma conscia di quel potere carismatico che mia nonna esercitava su di noi con il suo carattere spiritoso e allegro, fatto di battute di spirito, di buonumore, racconti e leggende di streghe e folletti, credenze popolari di origine celtica, alle quali si ispirava.
Spesso per farci stare buoni ci terrorizzava con le storie di fantasmi che si aggiravano per Timau, il paesino che seppur lontana viveva stabilmente nel suo cuore ma la paura non durava che qualche istante sostituita dalla curiosità morbosa di sapere come finivano quelle storie, alle quali riservava un finale sempre diverso tanto da  tenerci continuamente sulle spine in  attesa di chissà quale accadimento.
Il Silverio, le streghe, il serpente dell'acqua diventano presenze vive, oscure,  capaci di creare emozioni forti fino a turbare i nostri sogni di bambini.
C'erano anche immagini lievi legate alla semplicità della sua anima contadina della quale andava fiera  e la immaginavamo, gerla sulle spalle, dirigersi verso la stalla  dove  Bruna  e Nerina, la mucca  e la capretta, in un processo di personificazione avevano acquisito tratti umani.
Le accudiva e gli parlava nel suo splendido idioma timavese e al tepore della stalla più di una volta la trovarono addormentata, coi ferri della calza in mano.
Leggerezza è l’aggettivo che meglio si addice alla sua personalità, quella leggerezza dell'anima che neppure le avversità e i tanti momenti dolorosi riuscirono a scalfire